La Corte Costituzionale, con la sentenza n.148 del 4 luglio 2024, ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del Codice Civile nella parte in cui non include come familiare, oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo, anche il “convivente di fatto”.
Bisogna infatti considerare i numerosi mutamenti registrati dalla società a partire dagli anni Settanta. Il 20 settembre 1975 entrò in vigore la Riforma del Diritto di Famiglia; accanto alla famiglia tradizionale fondata sul matrimonio si erano affermate altre tipologie di famiglia, al punto che alcuni studiosi avevano parlato subito dopo la riforma di “diritto delle famiglie”.
Per “conviventi di fatto”, secondo la definizione prevista dall’art. 1, comma 36, di tale legge, si intendono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”.
Diritti dell’impresa familiare: il caso affrontato
Nello specifico la lavoratrice, a seguito del decesso dell’uomo con cui aveva stabilmente convissuto per oltre dodici anni, ricorreva giudizialmente nei confronti degli eredi dello stesso per chiedere l’accertamento dell’esistenza di un’impresa familiare, relativa ad un’azienda agricola, e la condanna alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipante all’impresa.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che si sono occupate del caso, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis Codice Civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella in cui collabora anche il «convivente di fatto».
La sentenza
La Corte rileva preliminarmente che a seguito dell’entrata in vigore della L. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà), vengono riconosciuti tutti i diritti spettanti ai coniugi anche alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, mentre lo stesso non accade nei confronti dei conviventi di fatto (parte della coppia di maggiorenni uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale). Secondo i Giudici questo trattamento differenziato è irragionevole.
Per la Consulta, infatti, anche se permangono alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali – tra cui viene annoverato quello al lavoro e alla giusta retribuzione nel contesto di un’impresa familiare – devono essere riconosciuti senza distinzioni a coniuge, componente dell’unione civile e convivente di fatto.
La Corte Costituzionale ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che hanno riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
Pur restando ferme le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. Tra questi rientra il diritto al lavoro e ad una giusta retribuzione, diritto che nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela.
La Corte ha ritenuto quindi irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.
All’ampliamento della tutela prevista dall’art. 230-bis del Codice Civile al convivente di fatto è seguita l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del Codice Civile, che comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione. Di conseguenza l’INPS dovrà rivedere le proprie indicazioni amministrative.
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